Se questo è un uomo: parte 1

Nel libro "Se questo è un uomo" Primo Levi parla della sua esperienza di deportazione al campo di concentramento di Auschwitz.

A ventiquattro anni, il 13 dicembre del 1943, fu catturato e portato al campo di internamento a Fossoli, in provincia di Modena. Nel giro di poche settimane, il campo passò dall'avere un centinaio di persone a circa seicentocinquanta che, il 22 gennaio 1944, furono tutte deportate a Auschwitz. Ancora però i “stük”, ovvero i “pezzi”, non sapevano la destinazione. Affrontarono un viaggio di 15 giorni ammassati in 12 carrozze con 50 persone l’una. Lí patirono la fame e la sete in un viaggio verso il nulla, verso il fondo.

Arrivati al campo, gli uomini in grado di lavorare furono separati da donne e bambini. Giunti al campo Buna-Monowitz furono spogliati, rasati, lasciati patire il freddo invernale e la sete, senza alcuna informazione. Appena arrivato Primo Levi aveva visto delle persone che aveva definito fantasmi. Dopo poco si rese conto che la metamorfosi era avvenuta. Era giunto nel “hier ist kein warum”, il luogo dove non c’è perché e dove tutto è proibito, perché il campo era stato costruito per questo motivo. Dove gli uomini venivano demoliti e privati del loro nome e della loro umanità. 

E proprio in un luogo come questo, in cui tutte le giornate erano uguali, passate a lavorare dall'alba al tramonto, a mangiare poche razioni di cibo, circondati da sofferenza e paura, Steinlauf insegna a Primo Levi una cosa molto importante. In occasione della doccia lo rimprovera perché Primo non vorrebbe farsela, non comprendendne l'utilità. Ma Steinlauf gli spiega che proprio perché "il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere".

Nel libro si possono notare alcuni riferimenti alla Divina Commedia.  Paragona un ufficiale SS al personaggio di Caronte che, invece di urlare "Guai a voi anime prave", richiese ai deportati orologi e denaro. Descrive la vita del Ka-Be, ovvero l'infermeria, come vita di limbo. Poi sopra la porta del campo la scritta "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi, che ricorda la scritta all'ingresso dell'inferno: "Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate".

Chiamaka N.



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